Alberto Osti
Correre lungo la fascia a fine anni ’80 a Rovigo era pressoché sinonimo di Alberto Osti, da tutti più conosciuto con il soprannome di Lola. A trent’anni dallo scudetto 1988, lo abbiamo raggiunto nella filiale della banca a Santa Maria Maddalena dove lavora.
“Il ricordo di quell’annata è entusiasmante, è stata una stagione vissuta, in cui ne abbiamo combinate di cotte e di crude. Anche quelle precedenti furono buone, ma non scorderei che quell’anno arrivò Nelie Smith, che fu una figura fondamentale per il nostro gioco, e dietro poi c’era una società solida che permetteva di raggiungere certi risultati e per cui ci si dovrebbe levare tanto di cappello. La squadra, poi, si era amalgamata bene. Molto girava ovviamente attorno a Naas, che era un fuoriclasse assoluto, e il resto erano quasi tutti di Rovigo. C’era un cuore diverso, ognuno cercava di fare qualcosa per l’altro e si era creata una piena mentalità positiva”.
Mentalità evidente nei minuti finali del match conclusivo al Flaminio contro Treviso.
“La finale di Roma fu la dimostrazione di questo. Ci sentivamo una famiglia e dentro di noi sapevamo di avere forza come squadra, ci davamo una mano l’uno con l’altro. È forse un aspetto che oggi manca e credo che con tutte le finali fatte se ci fosse stata quella mentalità, forse non si sarebbero persi tanti scudetti”.
A dare ulteriormente man forte c’era anche il pubblico.
“Il pubblico rodigino fu meraviglioso, soprattutto per quel fenomeno particolare passato sotto il nome di treno rossoblu. Tutto quello che ci circondava, ha sicuramente aiutato nel raggiungimento del risultato”.
Con l’apoteosi di quella meta allo scadere.
“Bellissima meta, propiziata da un’azione di Brunello, con Ravanelli in sostegno. Anch’io ero pronto in sostegno, se non ricordo male ero subito dietro a Massimo, ma fui placcato senza palla da un giocatore della Benetton”.
Associare le parole rugby e Alberto Osti significa, però, anche parlare forse del primo giocatore in Italia prototipo di atleta moderno.
“Ero e sono fatto così di carattere. A livello professionale mi curavo e mi volevo bene, non fumavo e non bevevo. Si pensi che i primi bicchieri di vino ho iniziato a berli dopo i 40 anni. Non so se i miei compagni mi guardassero male o mi prendessero in giro, il mio comportamento era quello e non potevo certo cambiarlo. Ognuno è fatto a suo modo”.
Così d’altronde era fatto anche lo stesso Botha, con cui in effetti nacque poi una bella amicizia.
“Naas era un vero professionista, sotto tutti i punti di vista. Non è mai stato un personaggio e ancora ci sentiamo. Gli ho telefonato giovedì scorso. Ora si trova in India, dove insegna sport nelle scuole”.
Dopo il 1992, la carriera di Osti vide numerosi passaggi in categorie minori, tra Feltre, Frassinelle e Villadose.
“Ad oggi continuo ancora a fare un po’ di palestra. Chiusi la carriera a 43 anni perché il fisico me lo permetteva e forse avrei potuto farlo anche ad altri livelli”.
A trent’anni da quello scudetto, che sensazioni ci saranno a ritrovarsi tutti per festeggiare quel traguardo storico.
“Molti dei miei compagni continuo a vederli. Tranne Gert, ho rivisto molti di loro tutti assieme un paio d’anni fa in occasione di un torneo Aldo Milani, quando fu invitato a presenziare lo stesso Naas. Certo ci sarà una componente diversa a livello mentale, perché ci rivedremo in una data storica, a trent’anni da quello scudetto. Personalmente posso solo dire che sono attimi indimenticabili: tornerei indietro e rifarei tutto quanto”.
C.S.