Flaviano “Briz” Brizzante, il rosso con Rovigo nel sangue
Del rugby si dice spesso sia lo sport per tutti, quello che necessita dell’alto per saltare in touche e del piccoletto sgusciante a mediano di mischia, del mingherlino che evita gli avversari come estremo o ala e del grosso che sbatta la testa là davanti in mischia. C’è, però, una condizione quasi unanimemente riconosciuta: in ogni squadra di rugby deve esserci un giocatore dai capelli rossi. Questo perché si narra portino con sé una buona dose di determinazione e aggressività. E la Rugby Rovigo 1987/88 che vinceva il suo decimo scudetto non poteva fare eccezione, trovando in Flaviano Brizzante, per tutti più semplicemente Briz, uno straordinario esempio di cacciatore di palloni e placcatore in terza linea.
“Ero il rosso del Rovigo, e già allora dei rossi si diceva che sono matti. Io avevo la giusta adrenalina che deve avere un giocatore di rugby, ho sempre messo l’anima e il cuore per la mia squadra, i miei compagni e la maglia. C’ho sempre creduto molto, pure se arrivavano proposte da altri club, ma ho sempre voluto finire dove avevo iniziato ed era giusto fosse così”.
Quella fu anche la sua annata, quella che lo vide acclamato dai tifosi del Battaglini e lo consacrò per sempre ad esempio di cosa volesse dire essere di Rovigo e giocare per la squadra della città.
“Fu una stagione stupenda, in cui lottammo con grandi difficoltà per arrivare in finale. Avevamo avuto problemi fisici con diversi giocatori, ma eravamo sempre riusciti a stringere i denti. Allora era veramente sentita la rodiginità in campo e c’eravamo prefissati l’obiettivo di arrivare a Roma a disputare la finale. È stato un traguardo importante per tutti”.
Nonostante la giovane età, era già considerato uno dei veterani del gruppo.
“Avevo 26 anni, avevo debuttato in coppa Italia a Treviso a 17 anni come ala, per poi finire in terza linea, ma si giocava dove c’era bisogno, mi è capitato pure di essere schierato come tallonatore, non mi faceva paura dove l’allenatore chiedeva ed ero disposto a tutto”.
Una squadra dove ci si sacrificava senza problemi. Come l’esempio di Stefano Bordon, schierato a centro dal barrage contro il Petrarca, testimonia.
“Nelie Smith doveva decidere se schierare me o Stefano in terza linea. Io ero anche reduce da un infortunio al piede, ma la scelta è stata poi quella di provare Bordon come centro e per lui è stato quasi un trampolino di lancio, visto che poi si è tolto molte soddisfazioni in quel ruolo, non ultima l’approdo in nazionale. Fu sicuramente un esperimento riuscito e un’ottima idea l’aver intuito che Stefano aveva le capacità di ricoprire quel ruolo”.
Una formazione altamente rodigina, ma anche molto fresca.
“Erano arrivati ragazzi giovani, alcuni provenienti dal Frassinelle, tutti comunque di talento e l’hanno dimostrato con quanto fatto negli anni. Eravamo sicuramente un gruppo amalgamato, con noi “vecchi” chiamati a trascinarli”.
Oggi lavora per l’azienda sanitaria locale e continua come allenatore, nell’ultima stagione alla guida del Fulvia Tour Rugby Villadose. Che ruolo ha avuto l’esempio di un grande tecnico come Nelie Smith nel maturare questa scelta?
“Quando ho smesso di giocare a 33 anni, ho deciso di continuare con i corsi da allenatore e ho avuto le mie soddisfazioni. Di tecnici importanti nella mia carriera ne ho avuti molti, come lo stesso Smith, e mi hanno aiutato tutti a formare un mio bagaglio anche in questo ruolo”.
Un titolo quello, conquistato davvero con ogni forza.
“Non avevamo mai mollato. Eravamo due squadre equilibrate e ogni errore poteva essere determinante, come successe ad esempio con l’episodio che coinvolse Naas e che Bettarello sfruttò per segnare la meta trevigiana. Quel Rovigo aveva la rodiginità nel sangue e non avrebbe ceduto un centimetro. Dopo la nostra meta, Treviso continuò ad attaccarci ma la nostra fu una difesa estrema, placcavamo tutto e tutti. Poi il calcio fuori di Naas ed è scoppiata la gioia. Ci abbiamo creduto fino alla fine. Se, invece, penso alla semifinale con il Calvisano del Rovigo di oggi non so se abbiano avuto quella fame, quella voglia di arrivare in finale: è mancato quello spirito di rodiginità secondo il mio punto di vista. Dovevamo prendere in mano l’iniziativa, mancava pochissimo alla finale. Spiace dire questo, ma come detto la rodiginità è un valore aggiunto. Noi eravamo un unico cuore che batteva fino alla fine”.
Una finale che viene ricordata anche per i tifosi sul treno rossoblu.
“È stata una cosa memorabile: organizzare un treno pieno di tifosi arrivati da Rovigo, sentirli vicini per tutta la partita, perché anche loro ci credevano e non ci hanno mai lasciati soli. Sono stati sicuramente il sedicesimo uomo in campo per noi e probabilmente è una cosa oggi irripetibile per qualsiasi squadra”.
La valigia di quegli anni è indubbiamente colma di ricordi.
“Aneddoti ce ne sarebbero tanti. Eravamo molto uniti in campo e fuori, in ogni momento. È stato sicuramente un sacrificio grande per le nostre famiglie, perché eravamo sempre assieme anche quando non avevamo allenamento, si sentiva la squadra come un unico respiro. Mia moglie ogni tanto dice che mio figlio Enrico me lo sono goduto poco da piccolo ed è vero. Ho iniziato a stare di più con lui negli anni in cui ho smesso, stando vicini sui campi, ma quando giocavo praticamente non eravamo mai a casa, si andava fuori a mangiare assieme o in discoteca o da altre parti oltre che al campo. Sono stati momenti indimenticabili”.
C.S.