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Stefano Bordon

10 Maggio 2018 Stampa articolo

rugbyIl Rovigo che vinceva lo scudetto della stella 1988 era formato in prevalenza da giovani rodigini. Tra questi, uno di quelli destinati a diventare tra i più conosciuti è sicuramente Stefano Bordon, oggi direttore tecnico del Rugby Gubbio, ma anche consulente di team building in società di formazione e mental coach per atleti e società sportive. Allora, all’età di vent’anni, uno strano cambiamento di ruolo, determinò le sue fortune future.

“Avevo giocato quasi tutto il campionato come terza linea, stavo bene, avevo 20 anni. Poi avevamo perso la prima partita di semifinale contro il Petrarca con centri Giorgio Visentin e Zuin. Al primo allenamento, mi han chiesto di passare centro, ruolo in cui non avevo mai giocato e quindi sentivo addosso un’enorme pressione.
Da lì ho lavorato duramente tutta la settimana concentrandomi sulla nuova posizione e sui movimenti necessari. Abbiamo vinto la seconda semifinale e anche la bella e poi la finale. Di sicuro, però, avevo addosso un’enorme tensione e stress nel giocare fuori ruolo”.

Ironia della sorte a pensare che ora Stefano Bordon è ricordato come uno dei centri più forti della storia rossoblu e anche in nazionale.

“Io ho giocato sempre in terza linea anche nelle varie nazionali, fino alla nazionale B. Poi allora il tecnico era Cucchiarelli che sosteneva che secondo lui le terze linee dovevano essere alte dal metro e novanta in su e quindi io ero escluso. Ho quindi cambiato ruolo perché volevo assolutamente giocare in nazionale”.

All’anno dello scudetto 1988 è legato un ricordo dolceamaro.

“Avevo vent’anni e giocavo nella squadra della mia città, per cui fu una grande gioia poter vincere quello scudetto. Quello stesso anno, però, a mio padre Pierluigi fu riscontrato un tumore. Il medico gli aveva sconsigliato di venire alla finale, per via delle sue condizioni di salute. Quando arrivai, non sapevo se c’era o meno, proprio perché poteva essere ricoverato in qualsiasi momento, ma sapevo che dovevamo fare di tutto per vincere perché quella sarebbe stata l’ultima e l’unica occasione che mio padre avrebbe avuto di vedermi vincere. Quindi per me gli ultimi cinque minuti forse sono stati più importanti di qualsiasi altra persona e quando siamo passati in vantaggio 9-7, il pensiero immediato è stato di mantenere quel risultato. Dunque, quella fu una partita decisamente particolare, non solo per il primo scudetto conquistato, ma anche per questo aspetto, che racconto adesso per la prima volta dopo trent’anni e non credo in molti conoscano”.

Alla luce di questo, assume tutto un altro significato l’immagine dell’esultanza dopo la meta di Ravanelli.

“Adesso si capisce perché urlavo. Urlavo perché ero felice, ma anche perché dentro avevo qualcos’altro”.

Il padre Pierluigi sarebbe poi mancato poco più di un mese dopo, agli inizi di luglio. Dopo la partita, cosa vi siete detti?

“C’è una foto bellissima (vedi allegato, ndr) che è una di quelle che più mi piacciono dove mi si vede a fine partita mentre lo cerco con gli occhi sulle tribune del Flaminio. E’ normale, è sempre stato il mio primo tifoso, seguendomi ovunque sin da quando ero piccolo. Ci siamo abbracciati ed era molto contento di avermi visto vincere. Ci siamo visti alla fine e poi lui è partito per tornare a casa e l’ho ritrovato nei giorni successivi che conservava i vari giornali dell’evento. E’ stato sicuramente tutto bellissimo. La mia generazione ha vinto due scudetti in quegli anni, facendo poi altrettante finali, ma uno scudetto come quello del 1988 per Rovigo ne vale come cinque”.

Il gruppo di allora sembrava molto unito, costituito su una base locale con alcuni innesti fuori categoria.

“Il bello della squadra era di essere molto giovane, basata sui gruppi del 1966-67-68 che avevano vinto tre scudetti giovanili consecutivi. Questo aveva contribuito a creare in noi già allora, nonostante la giovane età, una mentalità vincente, con molti nazionali giovanili che avevano vinto altrettanto sia in vari tornei che ad esempio al Fira. Giocavamo consapevoli della forza del singolo e del gruppo. La differenza vera con i nostri avversari era sul piano mentale. Si pensi al Petrarca di allora, che praticamente costituiva l’ossatura, soprattutto in mischia, della nazionale. Io in terza linea giocavo contro Innocenti che allora della nazionale era il capitano. Sia loro, con Knox e Campese, che il Benetton con i vari Green e Kirwan in quegli anni potevano contare anche su fuoriclasse stranieri. Si sentiva forte, ma già dall’ambiente delle giovanili, il senso di appartenenza, essendo quasi tutti ragazzi di Rovigo. Ci divertivamo assieme, ma volevamo anche vincere non solo partecipare. Il livello di allora, secondo me, era più alto di quello attuale sia dal punto di vista tecnico che per quanto riguarda aggressività e cuore, che poi è quello che ti fa dare quel qualcosa in più”.

Una stagione caratterizzata anche dagli esordi del tifo organizzato, che scaturì nel treno rossoblu.

“Non solo, è passata alla storia anche come il primo anno della formula a play-off, che secondo me è la migliore da un punto di vista d’immagine per il nostro sport. Ci fu una partecipazione davvero forte di pubblico della parte di Rovigo. Si ricorda molto il treno, ma io ricordo bene il viaggio di ritorno in pullman, la festa di piazza e sul corso tutto rossoblu. Sicuramente per un giocatore che vince lo scudetto è tutto bello, per uno che ha vent’anni ed è di Rovigo lo è ancora di più. Penso che in nessuna parte d’Italia si possa vivere una sensazione come quella di vincere il decimo scudetto, di essere a casa propria, dopo anni che non si vinceva e nel modo in cui è arrivato poi. Noi eravamo sicuramente una squadra competitiva, ma non quella da battere, piena di ragazzi giovani molto promettenti, pensando all’oggi quei ragazzi probabilmente sarebbero venuti fuori dalle varie accademie. Erano tutti atleti che facevano parte delle nazionali juniores, ma la grossa differenza era che venivano tutti da Rovigo e creati da un ambiente e da una struttura forte nel settore giovanile con allenatori autoctoni che trasmettevano i valori della Rugby Rovigo, che mi sembra si siano un po’ persi in questo momento”.

C’è un aneddoto che riassume quella stagione?

“Ricordo la delusione dopo la sconfitta con il Petrarca, se non sbaglio eravamo tredici giocatori di Rovigo e quindi c’era molta amarezza ma anche la voglia di tornare subito in campo a giocare per batterli. Ricordo i due giorni prima delle partite in cui andavamo in ritiro ad Albarella per stare assieme, far gruppo, passati a ridere e scherzare: un ambiente indimenticabile, si stava bene assieme ed era una cosa normalissima. Anni splendidi, anche perché come oggi la città era molto vicina alla squadra, si vinceva ed eravamo competitivi con tutti. Se i giocatori sono di Rovigo, poi l’attaccamento è molto più forte. Ricordo la festa, le tante birre in pullman, i canti a squarciagola allo stadio tutti assieme. Ho abbracciato tutti i miei compagni e forse nemmeno mi rendevo conto di quanto stesse succedendo. Lottavamo contro grandi squadre e alla fine è stavo veramente un sogno divenuto realtà”.

Chissà che pensieri in testa in quei momenti finali e quando la palla è arrivata in mano a Massimo Brunello.

“Erano i minuti conclusivi quindi ovviamente dovevamo provare a fare qualcosa per vincere la partita. Ho visto che Treviso era messo male in difesa e ho pensato vediamo se riesce a trovare il buco e se noi riusciamo a dargli sostegno. Poi ho visto che lo spazio l’aveva trovato e che all’ultimo avversario c’era Hamrin e allora lì mi sono preoccupato che andasse il più possibile verso il centro dei pali, perché avevo fatto il calcolo che ci serviva la trasformazione e con i quattro punti eravamo fermi sul pareggio e Naas non era nelle sue migliori serate. Nel frattempo mi arrivavano immagini del fatto che comunque stavamo raggiungendo un obiettivo importante e allo stesso tempo la necessità di rimanere concentrati gli ultimi minuti, perché non giocavamo contro gli ultimi arrivati”.

C.S.



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