Intervista a Massimo Brunello
Certo non sarà forse l’uomo più amato di Rovigo in questo momento, vista la vittoria del “suo” Calvisano nella semifinale del campionato di Eccellenza, ma indubbiamente Massimo Brunello resta per tutti i sostenitori il tecnico che ha dato spinta ad una rinascita rodigina solo pochi anni fa e ancor di più un vero cuore rossoblu e uno dei grandi eroi della cavalcata dello scudetto 1988.
“Fu un anno trionfale – dice Massimo -, come nemmeno il miglior sceneggiatore poteva prevedere. Fu il primo anno di Naas Botha, con l’innesto anche di Gert Smal, due fenomeni stranieri che si andavano a sommare ad una squadra molto rodigina. Ricordo un girone di ritorno in cui segnavamo tantissimo e non perdevamo mai. Poi fu il primo anno della formula a play-off e dovevamo rigiocarci tutto, altrimenti avremmo vinto quel campionato alla grande.
Avevamo fatto benissimo tutto l’anno e poi era arrivato il Petrarca in semifinale. Spesso capita ai favoriti di essere presi dalla tensione e i cugini ci giocarono un brutto scherzo alla prima in casa. La vittoria del ritorno fu per me la vera svolta, ci servì a riprendere la giusta fiducia per concludere al meglio quel torneo”.
Un campionato che la firma di Brunello la porterà per sempre, un po’ per quella meta decisiva, marcata da Ravanelli, ma scaturita da un’azione irresistibile dell’estremo rossoblu, ma soprattutto perché fu l’unico giocatore sempre presente in stagione.
“Fu per me un campionato eccezionale. Non venni mai sostituito e giocai tutte le 28 partite per tutti gli 80 minuti (per la cronaca fanno 2240 minuti, ndr). E quasi sempre da estremo. Soltanto contro il Noceto nei quarti tentammo di rimescolare un po’ la linea dei trequarti e giocai come centro in coppia con Ravanelli”.
Un duo come già detto e come le cronache e la vox populi raccontano da anni, forgiato a Frassinelle, ma poi entrato nella storia in quei minuti finali al Flaminio.
“Di quella partita restano dei flash, dei ricordi. Continuavo a chiedere il tempo. Ricordo di aver avuto un’occasione poco prima, ma poi persi palla. C’era una touche e abbassai la testa dicendomi che dovevo giocarmi tutte le possibilità e che alla prima palla arrivata avrei provato a contrattaccare. Mi ripetevo che se avessimo dovuto perdere, almeno ci avremmo provato fino alla fine. Bettarello calciò all’ala, io presi palla e provai a contrattaccare, saltando subito Green. Poi vedevo che ero chiuso sulla touche, ma fintai il passaggio, per creare maggior spazio. Sapevo che avevo Ravanelli in sostegno e sentivo che il placcatore mi stava prendendo male e che accelerando nessuno mi stava dietro, perché Treviso aveva una difesa squilibrata in quel momento, con giocatori sparsi per il campo. Quando ho incrociato nuovamente Bettarello sulla mia strada, ho capito che quello era il momento giusto per affidarmi ad Hamrin e mettere in moto la sua velocità”.
D’altronde le finte e gli slalom non possono che essere nel repertorio di un giocatore passato agli annali anche per il suo soprannome: Schinca.
“Il primo a chiamarmi così credo fu Gianni Siligardi nelle giovanili del Frassinelle, perché appunto facevo queste finte e schivavo la gente con questo movimento ad ondeggiare, come tra i paletti”.
Eppure su Roma aveva diluviato per tutto il giorno, con un campo pesante che sicuramente non suggeriva i contrattacchi. Da allenatore oggi cosa direbbe se un suo giocatore facesse un’azione del genere?
“Se la tentasse a 5’ dalla fine in situazione di svantaggio, gli direi che ha fatto bene a provarci. Fosse capitato nel primo tempo, certo gli avrei suggerito di calciare”.
Un’azione del genere, però, non è frutto del caso o di fortuna, ma c’è un qualcosa di studiato e molto allenamento dietro.
“Ricordo che nell’ultimo allenamento del venerdì prima di ogni partita, eravamo soliti fare un tocco tra noi e credo che molti movimenti siano nati anche da quelle situazioni. C’era grande intensità e voglia di giocare, ma anche competenza in campo. Quella meta è nata da quelle situazioni vissute durante gli allenamenti, non a caso. Ravanelli mi ha seguito perché mi conosceva da allenamenti come quelli e aveva capito che avrei trovato il buco, e allo stesso tempo io sapevo che ci sarebbe stato e che potevo dargliela”.
Un trionfo nato anche sulla base di un grande gruppo formato nelle giovanili del tempo.
“Io sono arrivato a Rovigo nel 1983 e ho debuttato in prima squadra nel 1985. Facevo parte di un’infornata di giocatori cresciuti a Frassinelle con Lello Salvan e che, con la classe 1966-1967, riuscirono a vincere se non erro quattro scudetti consecutivi. Ricordo ad esempio la finale contro il Cus Roma che era un’ottima squadra, ma che vincemmo di 40 punti. Dietro fu fatto un ottimo lavoro, con buone annate del Frassinelle ma anche dello stesso Rovigo con giocatori molto forti che militavano pure nelle varie nazionali e poi la ciliegina sulla torta fu l’arrivo di stranieri di classe mondiale come Botha e Smal per completare il progetto. Forse si poteva vincere qualcosa di più dei soli due scudetti e non ci fu grande continuità”.
Certo è che il rugby italiano di allora era qualcosa di diverso. Basti pensare ai nomi che circolavano, da Lynagh a Campese, passando per Kirwan ed altri.
“Il Benetton di allora era una squadra fortissima e negli anni ’90 iniziò anche il Milan, che vinceva quasi tutte le partite e contro cui ricordo che giocammo la nostra millesima partita in un Battaglini innevato. Forse noi in quel periodo non avevamo tanti stranieri a livello di rosa. Erano arrivati Dengra ed altri, ma forse abbiamo un po’ peccato di presunzione in quel momento del passaggio degli oriundi argentini, potevamo forse provare anche noi a pescare un Dominguez o un Gomez”.
A trentanni di distanza che effetto farà il 1 giugno prossima poter riabbracciare in piazza il popolo rossoblu di oggi e di allora?
“Sono cose stupende che più che le sfide in sé, ti fanno rivivere momenti particolari. Al di là della partita, resteranno sempre i ricordi bellissimi, lo stare assieme negli spogliatoi e il far parte di un’unica famiglia. Dico sempre anche adesso ai miei ragazzi che questi sono i momenti da vivere assieme”.
Anche perché l’atmosfera fu decisamente particolare, riscaldata dallo straordinario pubblico giunto dal Polesine con il famoso treno rossoblu.
“Ai tempi non c’era internet e quando siamo partiti in pullman per Roma, due giorni prima della partita, si parlava di questo treno, si sentiva che ogni giorno aumentavano le carrozze e le prenotazioni ed eravamo completamente presi dall’euforia. Si sapeva che sarebbero arrivati i tifosi e sarebbe stata una festa bellissima. Ma non c’erano notizie certe e nessuno poteva sapere come sarebbe stato. Nei giorni successivi abbiamo visto i giornali con le foto ed è stato qualcosa di incredibile.
Quando stavamo andando allo stadio, ci fu un temporale spaventoso che aveva bloccato Roma e arrivammo addirittura al campo in ritardo, con la città allagata e il campo inzuppato e fummo costretti a fare il riscaldamento negli spogliatoi piccolissimi del Flaminio. Quando poi siamo usciti per l’inno, abbiamo visto la fetta rossoblu dello stadio, con tutti i tifosi attaccati ed eravamo senza parole”.
L’altra particolarità che contraddistingue da sempre Massimo Brunello è quella dei calzettoni abbassati alla Sivori.
“Non per volere – ride il diretto interessato – ma perché avevo poco polpaccio e quindi cadevano e io non ci facevo troppo caso. I calzettoni erano senza elastico e non era una scelta estetica come magari hanno fatto altri. Mi dicevano di mettere il salvapelle che avrebbe mantenuto al loro posto le calze, ma a me dava fastidio”.
Oggi allenatore del Calvisano, in passato in Polesine a Rovigo ma anche Badia, sulle orme dell’esempio di un grande tecnico di allora come Nelie Smith.
“Nelie Smith ha trasmesso a tutti noi quel senso di appartenenza al gruppo, del lavoro e del sacrifico che porto anche nei miei insegnamenti. Eravamo sicuramente dei ragazzi vispi e che cercavano la gloria personale, ma lui ci ha dato un forte senso di non essere concentrati nell’avere, ma nel dare alla squadra: un aspetto che ci ha indirizzato”.
C.S.