Intervista a Graziano Ravanelli
Una stagione trionfale, quella 1987/88 della Rugby Rovigo, che sembrava poter sfumare in un attimo: alla fine saranno 28 partite, 24 vittorie, 3 sconfitte ed un pareggio, ma per la prima volta la Federazione Italiana Rugby aveva deciso che la vincitrice del campionato nazionale si sarebbe decisa con la formula dei play-off.
Rovigo ci arriva da prima incontrastata. Distrugge letteralmente il Noceto ai quarti, ma poi perde la prima semifinale con il Petrarca in casa, vince di misura e quasi miracolosamente la seconda e trionfa con un prodigioso Naas Botha nello spareggio.
La finale è a Roma, allo stadio Flaminio, invaso dai tifosi rossoblu, contro il Benetton Treviso. Piove a dirotto, il campo è pesantissimo e il classico pallone Wallaby ancora di più. Non si riesce a giocare alla mano e bisogna affidarsi ai calci. Botha porta in vantaggio i Bersaglieri, Bettarello pareggia e poi approfitta, ironia della sorte da ex e polesano doc, di uno dei rarissimi errori dell’apertura sudafricana per portare in vantaggio i biancoverdi.
Il risultato è fermo sul 7-3 a pochi istanti dalla fine e tutto lascia pensare che sia finita, quando arriva l’ultima scintilla, nata quasi per volere degli dei dell’ovale.
Botha calcia malamente in mezzo al campo senza grosse alternative, Treviso ricalcia indietro e la palla viene presa al volo al limite dei ventidue da Massimo Brunello, che inizia una corsa inarrestabile, saltando uno, due, tre, quattro avversari come birilli. Accorre alla sua destra un giovane rodigino di 22 anni, Graziano Ravanelli, che urla a gran voce la sua presenza e viene servito. Fa appena in tempo a sentire il tocco sul suo tallone del mediano di mischia trevigiano Umberto Casellato (altra ironia della sorte oggi allenatore del Rovigo) che tenta una disperata francesina e scatta in meta: è il pareggio che, con la trasformazione di Botha, vuol dire vittoria 7-9, apoteosi, scudetto della stella per la Rugby Rovigo e forse ancor di più un giorno da consegnare alla storia di tutto il Polesine.
E che Graziano Ravanelli fosse l’uomo della provvidenza lo si era già capito nella seconda semifinale con il Petrarca, quando sul 10-10, poco prima del calcio siderale e decisivo di Botha, stoppò un drop in mezzo ai pali a Knox. Senza quella stoppata e senza la sua presenza al fianco di Schinca, Rovigo ora non starebbe probabilmente celebrando il trentennale di quell’epica impresa.
Oggi Hamrin, come è conosciuto da tutto l’ambiente per la sua somiglianza con l’asso calcistico di Fiorentina e Padova, lavora in banca a Gavello e continua nel rugby allenando la formazione cadetta del Rovigo.
Lo abbiamo raggiunto per ricordare quei momenti.
“Eravamo un gruppo giovane, con tanti rodigini e l’innesto di assoluti fuoriclasse come Gert e Naas – commenta Ravanelli -. Di sicuro non eravamo partiti in quel campionato con l’idea di fare l’impresa che poi riuscimmo a fare a Roma, ma comunque consapevoli di essere un buon gruppo, con diversi ragazzi che in precedenza avevano vinto i campionati giovanili e allora chi vinceva nei campionati giovanili prima o poi si poteva aspettare un’annata buona anche per la prima squadra: eravamo lì e dovevamo semplicemente capire quando sarebbe arrivato il nostro momento. Man mano che si andava avanti e arrivavano i risultati, arrivava anche la sensazione che qualcosa stesse maturando nel gruppo e la squadra cresceva in modo forse anche inaspettato, diventando sempre più confidente delle proprie potenzialità”.
E poi quella meta, passata alla storia come meta di Brunello, però a schiacciare l’ovale oltre la linea fu proprio lui. Senza aver schiacciato quella palla o se Ravanelli non si fosse trovato proprio al fianco di Brunello, quello scudetto non ci sarebbe molto probabilmente stato e la grande festa del cuore e del treno rossoblu sarebbe verosimilmente stata un grande viaggio di delusione e amarezza.
Senza contare poi la decisione di avvicinarsi il più possibile sotto ai pali e consentire una trasformazione più agevole per il sorpasso a Botha.
“C’era tantissima stanchezza, però correvo continuando ad urlare a Massimo, per fargli sapere che nel momento in cui non avrebbe più potuto proseguire, io ero pronto a ricevere quel pallone pesantissimo. Con tutta la paura di non riceverlo e, nonostante fossimo nei minuti finali, anche con la consapevolezza di dover riceverlo e subito accelerare per evitare di essere ripreso dalla difesa trevigiana. Sentii la mano di Casellato sul tallone e poi Stefano Bordon che mi indicava il centro dei pali”.
Una meta nata, però, addirittura la sera prima, nel vero segno del destino.
“Ero in camera con Bombonato in albergo e si parlava tra di noi la sera prima di andare a dormire. Lui mi chiese cosa avrei voluto sperare per la finale e gli risposi che sognavo una vittoria con meta personale all’ultimo minuto. Dopo aver segnato venne da me dicendomi che non ero umano e che avremmo dovuto farlo sempre da quel momento in poi. E’ stato come un terno secco sulla ruota di Venezia”.
Tante ovviamente le emozioni di quella meta: vista e rivista e raccontata ormai in tutti i modi.
“Avevo capito che Massimo ormai era chiuso e non sarebbe riuscito ad arrivare in fondo e sapevo che in quel momento mi avrebbe dato la palla e che avrei dovuto immediatamente aumentare la velocità di corsa perché sentivo dietro gli avversari: bastava un attimo di tentennamento, anche solo nel controllo della palla, e mi avrebbero preso di sicuro. E poi quando ho schiacciato è stata una gioia immensa, in quel momento ero consapevole di aver segnato una delle mete più importanti nella storia della Rugby Rovigo. Era stata poi un’annata sofferta, con tanti infortuni. Mi sono trovato tutti i miei compagni lì, anche loro consapevoli che la partita ormai era finita e io non ci potevo credere, sono cose che forse ti capitano una volta nella vita e quindi la devi vivere solo in questo modo, non ne esistono altri e le sensazioni che hai sono inevitabilmente molto forti. Non mi prendo il merito, Massimo fece una bellissima azione, io fui il protagonista della meta, ma tutta la squadra giocò bene”.
Una partita divenuta epica anche per la vera e propria epopea dei tifosi. Si narra che 1 abitante su 20 di Rovigo fosse allo stadio Flaminio e ci fosse arrivato con quel viaggio incredibile sul treno rossoblu.
“Ho un ricordo meraviglioso del treno rossoblu – continua l’ex centro -, perché vedevi che era tutta una città che ti sosteneva: era un treno, ma per me poteva essere tutta la città che andava sui binari. Ricordo pure l’allegria della gente quando siamo arrivati con il pullman, tutti con le bandiere, il tantissimo entusiasmo esploso quando siamo tornati in piazza Vittorio Emanuele, si faceva fatica a passare sul Corso stracolmo di gente: tutta Rovigo era lì. Ero felice sotto l’aspetto sportivo, ma in quel momento ho capito che avevamo fatto qualcosa di importantissimo e che andava oltre la semplice vittoria. Abbiamo risollevato gli animi di molti rodigini”.
Senza contare che non si vinceva dal 1979 e che quella era una squadra fatta di tanti rodigini.
“Si, ma non dimentichiamo nemmeno che fino all’ultimo minuto era il Treviso ad essere praticamente campione d’Italia. Immaginate quindi la gioia conseguente e come potevamo sentirci”.
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C.S.